Non è un vero e proprio “lieto fine” quello proposto da Fabio De Felice e Roberto Race, autori del libro “Il Mondo Nuovissimo”, pubblicato da Luiss University Press con la prefazione del presidente della Pontificia Accademia per la Vita Monsignor Paglia, ma sicuramente un messaggio di maggiore speranza all’interno del dibattito pubblico sull’innovazione tecnologica, che spesso raggiunge toni molto cupi, specie quando si parla di IA.
Inserita nella collana diretta dalla giornalista del Sole 24 Ore Nicoletta Picchio, l’opera approfondisce in dodici agili capitoli le diverse “materie” che sono state toccate da questo vorticoso sviluppo (lavoro, arte, istruzione, relazioni umane, etc.) e lo fa sfruttando la forma dialogica, una precisa scelta stilistica degli autori (il primo docente e imprenditore, il secondo consulente e giornalista) che, dopo aver detto la propria, non rinunciano a un confronto con alcuni dei più importanti top manager d’Italia per farsi raccontare il loro punto di vista rispetto a un periodo storico di grandi cambiamenti.
Con De Felice, professore di ingegneria all’Università degli Studi di Napoli Parthenope nonché fondatore del gruppo Protom, abbiamo approfondito alcuni aspetti.
Partiamo dal titolo. La vostra è una chiara citazione dell’opera di Aldous Huxley. Perché questa scelta?
Perché “Il mondo nuovo” non è solo un libro, ma una narrativa ancora tremendamente attuale. Il capolavoro di Huxley ambienta il racconto in un mondo dove il crocifisso è sostituito dalla T del primo modello prodotto dalla Ford (Model T), dove Henry Ford è Dio e il concetto di produzione in serie è la base della società.
Oggi stiamo vivendo sostanzialmente una nuova rivoluzione industriale, con l’intelligenza artificiale e gli algoritmi al centro del “villaggio globale”. Se quello era un Mondo Nuovo, questo non può essere altro che un Mondo Nuovissimo.
Cosa vi ha consentito di ottenere il format scelto – il dialogo – che un saggio tradizionale non avrebbe permesso?
Perché è il modo naturale per l’uomo di comunicare. Con Roberto Race non avevamo intenzione di “spiegare”, ma di dialogare con il lettore: il nostro confronto non vuole condurre il lettore ad ottenere risposte, ma, con il supporto di studi, bibliografia, arte, pensieri e voci, far sorgere domande, porsi interrogativi, lasciando così al lettore l’elaborazione di un suo personale modo di vedere la realtà fenomenologica che attualmente caratterizza la transizione in atto.
Un saggio parla da un piedistallo, spiega, ed è anche giusto che lo faccia in determinati contesti: qui, invece, stiamo parlando di qualcosa in divenire, qualcosa ancora in fase di definizione e non conosciuto nella complessità, ai più. Del resto, da Platone in poi dialogare è una forma privilegiata per la ricerca della verità; e noi ancora oggi continuiamo a citare i filosofi greci, nonostante molte delle risposte che offrivano fossero errate, proprio perché, come ci suggerisce Russel, le domande, invece, erano giuste.
Con quali criteri sono stati scelti i protagonisti della seconda parte del volume?
Nella cura della seconda parte del nostro libro, abbiamo perseguito un approccio olistico nella scelta dei contributi, mirando a incapsulare la pluralità e la complessità del panorama delle diverse visioni rispetto al fenomeno in corso.
Puntavamo a catturare una varietà di esperienze e opinioni attraverso le lenti di coloro che sono in prima linea nella transizione digitale in corso, che sta ridefinendo i confini di questo “mondo nuovissimo”: la varietà di voci, da quelle che echeggiano nei corridoi delle gigantesche corporation internazionali a quelle che risuonano nelle sale riunioni di piccole e medie imprese italiane, ci ha fornito la possibilità di catturare le sfumature e le variazioni di questa trasformazione.
Questo approccio ci ha permesso di tessere un racconto che non solo evidenzia le diverse strategie e visioni nell’adattamento e nell’innovazione digitale, ma ci ha consentito anche di sottolineare come questi diversi attori contribuiscano in modo significativo alla forma e alla direzione, anche dal punto di vista etico, di questo cambiamento epocale.
Tanti i temi affrontati. Nel capitolo 10, per esempio, si parla di lavoro e di colonialismo digitale. Afferma: “La condizione per prosperare, nella realtà digitalizzata, è una sola (…): lavorare sodo e correre più veloce, per provare ad accrescere il proprio tenore di vita”. Non è il contrario del fenomeno che si è diffuso dopo la pandemia? Quiet quitting, più attenzione alla sfera personale e così via?
La risposta alla questione sollevata può essere articolata intorno alla poliedrica natura del lavoro. Infatti, la percezione del lavoro come mero sforzo e ripetitività può indubbiamente portare a considerarlo un peso, con il burnout come diretta conseguenza. Tuttavia, questa visione nasce da un approccio passivo a questo concetto.
Il lavoro, in realtà, rappresenta una fondamentale cerniera tra economia e società, essenziale per la stabilità democratica. Quando si guarda al lavoro attraverso una lente che valorizza l’interesse personale, la creatività e l’immaginazione, esso trasforma l’esperienza lavorativa in qualcosa di più profondo, che va oltre il semplice incremento del benessere materiale, arricchendo anche la sfera umana.
In questo senso, l’impegno lavorativo si configura non solo come mezzo per il progresso, ma come fondamento dello stesso, differenziandosi nettamente dall’essere un semplice ingranaggio di una macchina più grande.
La tendenza verso il quiet quitting e un maggiore focus sulla vita personale può quindi essere vista come una reazione alla mancanza di queste qualità nell’attività svolta, piuttosto che un rifiuto del concetto di lavoro in sé.
Il tema del lavoro torna nel capitolo 12 e indaga la relazione con lo sviluppo dell’IA. A un certo punto si afferma: “Oggi possiamo delegare l’elaborazione di un pensiero complesso alla tecnologia, ma operando in questo modo rinunciamo all’opportunità di ‘allenare’ la nostra capacità di immaginare soluzioni e fare scelte che traducano le stesse in scenari concreti. Di fatto, rinunciamo alla nostra capacità distintiva, connotata da creatività e immaginazione”. Quale potrebbe essere l’alternativa a questo modo di fare, dunque?
In effetti appare come una sorta di patto con il diavolo: essere sollevati dalla fatica di dover pensare ci rende incapaci di farlo. Infatti, piuttosto che interrogarci su come tradurre, attraverso gli algoritmi, la complessità della realtà per favorire la liberazione del valore inteso come arricchimento culturale, emozionale e in definitiva umano, depotenziamo il nostro pensiero, adattandolo sulla logica di funzionamento della macchina e guardando alla sola velocità e performance.
Naturalmente tutto questo si riverbera sul mondo del lavoro, che tuttavia non è una quantità finita come se fosse una torta. Se una tecnologia, l’IA o un robot se ne prende una fetta, non ce ne sarà di meno per l’umanità.
In qualche modo il digitale sta ridisegnando il lavoro in modo economicamente più vantaggioso; non lo sta distruggendo, ma modificando profondamente. Di sicuro molti mestieri scompariranno, in particolare tutti quelli in cui l’uomo funge da interfaccia tra due agenti di uno stesso fenomeno, per esempio il cassiere, l’operatore di call center o l’autista.
Si sta accentuando lo scollamento tra la capacità di svolgere un compito e la relativa intelligenza necessaria per farlo. Tagliare l’erba, se fatto da un uomo, dev’essere realizzato con una certa “intelligenza”, ma se a fare questa operazione è un robot questa intelligenza non serve e io posso dedicarmi ad attività in cui risulto maggiormente essenziale. Avremo sempre più bisogno dell’impiego di “intelligenza umana” per gestire questo scollamento.
La via è tracciata. Per far in modo che la tecnologia migliori la nostra vita, abbiamo bisogno di un parallelo progresso morale dell’uomo. Solo così potremmo indirizzare la tecnologia, che non ha obiettivi, non ha uno scopo, nel supportarci nella risoluzione delle grandi sfide dell’umanità.
Un altro aspetto che caratterizza il libro, infine, è il fatto che la conversazione si sviluppa anche attraverso numerosi riferimenti bibliografici e cinematografici. Con che scopo?
L’arte e la narrativa avvicinano in modo naturale il fruitore ad argomenti spesso complessi e di difficile comprensione. Quante informazioni immagazziniamo senza neanche accorgercene quando guardiamo un film o leggiamo un libro? Il progresso tecnologico, da sempre, si nutre del dialogo tra fantasia e scienza, e ha spesso trasformato la fantascienza in realtà, stimolando l’immaginario collettivo e trasformando visioni audaci in realtà tangibili. Dalla metà del ventesimo secolo a oggi, molti concetti di fantascienza hanno trovato realizzazione nel mondo reale.
Tuttavia, dobbiamo osservare che la tecnologia, nel suo percorso apparentemente inarrestabile, sembra stia raggiungendo un apice tale da limitare, anziché incentivare, la fantasia creativa.
Pertanto, il nostro testo invita il lettore a non cedere al cinismo o alla rassegnazione. La storia, infatti, ci insegna che ogni epoca ha le sue sfide e le sue opportunità. È nostro compito, come società, incoraggiare un dialogo continuo tra scienza e fantasia, riconoscendo che il vero progresso nasce non solo dall’innovazione tecnologica, ma anche dalla capacità umana di immaginare “mondi nuovissimi” ancora inesplorati.
Nota sugli autori
Fabio De Felice è professore di ingegneria all’Università degli Studi di Napoli Parthenope, imprenditore e fondatore di Protom. È componente della task force Digitalization del B20, il Business Forum del G20. È autore di numerose pubblicazioni sulle sfide della trasformazione digitale.
Roberto Race è consulente in corporate e reputation strategy per multinazionali e alcune delle più dinamiche imprese. Giornalista, ha promosso think tank e fondazioni. È segretario generale di Competere.Eu e membro della task force Finance & Infrastructure del B20, il Business Forum del G20.
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