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L’imprenditorialità, un patrimonio da tutelare

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Parto da lontano. Temporibus illis, Einaudi diceva che: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.”[1]

Arrivo ad oggi. Tutti d’accordo: gli imprenditori rappresentano un patrimonio da proteggere, da legittimare, da potenziare, al punto che la citazione è ancora ampiamente utilizzata nei convegni, negli uffici e nelle fabbriche. Ma una domanda sorge spontanea: interrogato in real time, Einaudi concederebbe il bis? Ci metto del mio e provo a rispondere, correndo sul filo della provocazione.

 

La frase ha una sessantina d’anni e li dimostra tutti. La frase ha una sessantina d’anni e non li dimostra affatto. Li dimostra, per almeno due ragioni, variamente riconducibili alla fase storica che stiamo vivendo. La prima si collega alle tendenze demografiche. Negli scenari del terzo millennio, vien da chiedersi se non si debba invertire il senso di marcia da “migliaia, milioni di individui” a “milioni, migliaia di individui”. La tesi di fondo è semplice: anche ai fini del fattore imprenditoriale, la popolazione “conta”.

Ha contato molto negli anni Sessanta e Settanta, a sostegno del grande sviluppo dell’economia, del capitalismo familiare e dei distretti industriali. Sta contando, da un po’ di tempo a questa parte, attraverso i flussi di immigrazione e i fenomeni di imprenditorialità ad essi connessi, in particolare nei settori di attività tradizionali. E sta contando anche nel contesto dei fenomeni migratori dei nostri giovani (cervelli e non) in fuga verso destinazioni più attrattive, fenomeni non adeguatamente compensati da dinamiche di rientro.

In sintesi: non c’è bisogno di sciorinare statistiche per affermare che la “base dati” a cui attingere per fare l’imprenditore non è più quella dei tempi di Einaudi.

La seconda ruota attorno al “nonostante tutto”. Quanto al “molestare, inceppare, scoraggiare” gli imprenditori, vien da dire che si stava meglio quando si stava peggio. Quello che allora poteva rappresentare un cahier des doléances è diventato un’enciclopedia, con interi volumi dedicati alla inadeguatezza delle infrastrutture, allo strapotere della burocrazia, alla rigidità del lavoro, alla evanescenza delle policies.

 

La frase non li dimostra, per almeno due ragioni, che derivano dall’osservazione e dalla rappresentazione dei fatti (buona pratica che si va progressivamente perdendo, travolta dai fiumi di parole made in social…).

La prima è che degli imprenditori continuiamo ad avere un grande bisogno, esattamente come ai tempi di Einaudi. Anzi, oggi più di allora, la tensione all’innovazione, l’apertura al cambiamento, l’educazione al rischio, la legittimazione dell’impresa, rappresentano un “affare di Stato”, cioè un elemento costitutivo della convivenza sociale. Giuseppe Berta lo afferma senza mezzi termini: “Per un’ironia della sorte, la prefigurazione della società di domani rischia di assomigliare un po’ all’eterogeneo universo settecentesco di Cantillon, popolato da figure che non possono contare su un reddito fisso, ma variabile a seconda delle circostanze, delle congiunture e soprattutto delle capacità di industriarsi. In questo senso, tutti sono sollecitati a diventare imprenditori di sé stessi, impiegando al meglio il proprio capitale umano, valorizzato attraverso l’ammodernamento incessante del patrimonio di conoscenze in possesso di ciascuno.”[2]

La seconda è che per fortuna gli imprenditori ci sono, anche tra le nuove generazioni. Nei fatti, l’analisi empirica e la ricerca accademica ci restituiscono un vasto repertorio di giovani imprenditori “sul pezzo”, donne e uomini che, giusto per richiamare il linguaggio di Einaudi, esprimono una vocazione forte, prodigano energie, investono capitali. Rappresentano, come osservavo, un patrimonio da tutelare, che coniuga doti individuali (l’ambizione, la determinazione, la passione, il fiuto per le opportunità, la capacità di prendere decisioni in contesti di incertezza) ed etica professionale (la concezione dell’impresa come bene privato di interesse pubblico, la tensione a far crescere una comunità di persone, il valore del merito, il senso di responsabilità istituzionale e così via).

 

Mettendola sul piano calcistico, il risultato sarebbe un salomonico pareggio. Due ragioni contro, due ragioni a favore. L’arbitro ha fischiato ed Einaudi se ne torna negli spogliatoi. E invece no. Si va ai supplementari, per giocare la partita delle partite: come si conserva e, ancor meglio, come si sviluppa il patrimonio aziendale (e sociale!) di cui sopra? A occhio, servirebbero una decina di tempi, disquisendo di contesto culturale e di variabili ambientali, di sistema scolastico e di politiche a sostegno, di modelli di governance e di dimensioni aziendali. Ne gioco uno soltanto, quello della formazione. La violenza e la discontinuità dei cambiamenti impongono una evoluzione delle competenze mai sperimentata in passato. Non sono solo le tecnologie ad essere disruptive. Lo sono anche le conoscenze, le abilità, il know how, gli stili di direzione, le capability. Imprenditori e manager, in trincea nel day by day, lo sanno molto bene e non possono permettersi di avanzare allo scoperto. E qui si apre un mondo nuovo, sulle spalle delle business school prima che delle università. Un mondo fatto di contenuti disciplinari e di tecniche manageriali up to date. Ma anche, se non soprattutto, di impostazione, di posizionamento, verrebbe da dire di “filosofia gestionale” dei progetti formativi. In poche parole: corsi, academy, executive master sempre più all’insegna della personalizzazione spinta, fino al limite della modellazione individuale one to one, della concretezza vera, fatta di competenze immediatamente spendibili in azienda, dell’esperienzialità che passa attraverso le simulazioni, il gaming, i tool applicativi, del continuous learning.

Non c’è il due senza il tre: è una fase disruptive nella quale anche chi di mestiere fa il formatore è chiamato davvero a fare scelte differenti.

 

[1] Luigi Einaudi, “Dedica all’impresa dei Fratelli Guerrino”, Dogliani, 15 settembre 1960.

[2] Giuseppe Berta, “L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)”, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 208-209

 

(L’autore è componente del Comitato scientifico consultivo di Piccola Industria)

 

 

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