La tendenza degli investimenti in Europa non è brillante in questa fase. Le previsioni della Commissione europea indicano che, per il 2024 e 2025, la crescita economica sarà in larga misura trainata da una costante espansione dei consumi privati poiché, nonostante l’inflazione non sia ancora domata, il protrarsi della crescita dei salari reali e dell’occupazione (che ad esempio in Italia si è recentemente accresciuta nei comparti dei servizi) sostiene l’aumento del reddito disponibile delle famiglie. Una forte propensione al risparmio, tuttavia, sta ancora in parte frenando i consumi poiché i due anni di alta inflazione hanno eroso la ricchezza finanziaria.
Nell’Unione europea, ed in particolare nella zona dell’euro, invece appare in attenuazione la crescita degli investimenti che, rallentata dal ciclo negativo dell’edilizia residenziale, dovrebbe registrare solo un modesto aumento. Sebbene le condizioni creditizie siano destinate a migliorare nella seconda metà del 2024 e nel 2025, i mercati si attendono ora un percorso più graduale di riduzione dei tassi di interesse. Nel medio termine, il rischio di una involuzione che comprima gli investimenti in Europa esiste, complice la Revisione del Patto di Stabilità, la percezione crescente della fragilità geopolitica del Vecchio Continente e la connessa difficoltà nel dare seguito all’esigenza di un’efficace politica fiscale comunitaria.
Nonostante il taglio di un quarto di punto del tasso d’interesse della Bce, il costo dell’indebitamento per le imprese europee è tuttora alto. Ricordiamo che era passato dal 2/2,5% al 5/5.5% in media tra il settembre 2022 e il novembre 2023, un aumento fortissimo in poco più di un anno, e mentre è ora in discesa su livelli inferiori la situazione è comunque di un tasso reale d’interesse superiore al tasso di crescita.
La mole di investimenti richiesti in Europa per la Transizione 5.0 (energetica, digitale, cibernetica; in infrastrutture, macchine e nuove competenze) è pari ad un multiplo a due cifre dell’entità del piano Next Generation Europe, il cosiddetto Recovery Plan post Covid: senza il contributo dei mercati finanziari e la pianificazione delle aziende industriali, quegli investimenti non si concretizzeranno e il ritardo dell’Europa in termini di crescita della produttività aumenterà rispetto agli Stati Uniti e alla Cina.
L’inflazione diffusa e la corsa dei tassi d’interesse hanno indebolito le economie e le società europee, già provate da Covid e conflitti. Un immobilismo europeo, all’indomani delle elezioni per il Parlamento Ue, rischia di far ripiombare nel torpore l’economia continentale, con governi e Commissione dedicati a proteggere l’esistente dei diritti acquisiti, delle rendite e della purezza dei bilanci, nonostante i proclami sulle grandi sfide che abbiamo di fronte.
Difficile immaginare in tali condizioni uno sviluppo sostenuto di produttività, investimenti e benessere, con il mondo che sta rapidamente cambiando, i dividendi dell’epoca d’oro della globalizzazione della fine del secolo scorso ormai un ricordo, e il neomercantilismo che ha sostenuto la nostra crescita per quasi due decenni giunto al tramonto. Non sarebbe corretto attribuire ancora una volta alla politica monetaria ruoli impropri o di supplenza in un assetto di governance europea carente sotto il profilo fiscale, e quest’ultimo nodo va risolto.
Per quanto riguarda l’Italia, le imprese sono in attesa dei decreti attuativi per gli incentivi di Transizione 5.0. Il costo del ritardo per il sistema delle imprese è duplice. Anzitutto, gli ordini delle imprese che producono beni strumentali, specie quelli relativi al mercato interno, sono bassi in attesa dei decreti. Gli investimenti in macchinari e tecnologie produttive dovrebbero aumentare in Italia anche per compensare la diminuzione di quelli immobiliari, che risentono in questa fase della vicenda del Superbonus, ma si attendono appunto i decreti attuativi di Transizione 5.0. Nelle prospettive attuali di bassa crescita della domanda interna, il tempo perduto degli investimenti è particolarmente critico.
La conseguenza più preoccupante del ritardo riguarda tuttavia l’introduzione delle nuove tecnologie digitali e per la transizione energetica, e grava sulla competitività dell’industria italiana. La Transizione 5.0 è la leva per rendere efficiente la nostra manifattura, che ha esportato per oltre 600 miliardi con un avanzo commerciale che è tornato ampiamente in positivo dopo l’aumento record dei prezzi energetici nel 2022. Senza gli incentivi per il nuovo capitale materiale e immateriale per innestare le innovazioni digitali nei processi produttivi, e per proseguire nella transizione energetica, la crescita della produttività delle imprese italiane resta frenata e così la loro proiezione sui mercati globali.
Per le nazioni avanzate gli incrementi di efficienza richiedono investimenti in innovazione e nuove competenze, e anche incentivi ben disegnati rispetto agli obiettivi e di rapida implementazione.
In questo senso, le imprese hanno molto da contribuire in termini del “come” realizzare gli obiettivi che la politica si propone, sia rispetto alle modalità operative sia rispetto agli equilibri sociali da promuovere. In Europa, poi, “l’arma” economica da perfezionare è il Mercato Unico: solo imprese europee di dimensioni sufficienti possono investire in capitale innovativo e generare abbastanza utili per sostenere il passo di quelle americane o cinesi. Quest’arma, che aumenta l’efficienza produttiva, richiede però innovazioni economiche e politiche europee per distribuire i vantaggi tra paesi e categorie sociali.
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