La nostra Costituzione impegna la Repubblica a tutelare, garantire, e promuovere l’uguaglianza dei cittadini rispetto ad alcuni beni fondamentali, come la libertà, il lavoro, la salute, la sicurezza, l’istruzione, e la cultura. Tutele, garanzie e promozione, in concreto, si attuano attraverso un sistema di servizi pubblici, la maggior parte dei quali decentrati. Alcuni di essi, come quelli che riguardano la salute e l’istruzione, sono tenuti ad assicurare livelli minimi di prestazione, affinché né le diverse condizioni economiche e sociali in cui versano i cittadini, né l’assetto del territorio in cui vivono pongano limitazioni al diritto di ognuno di godere di beni essenziali.
Quali sono, o dovrebbero essere, i servizi che garantiscono il diritto alla cultura, in un paese dove le barriere all’accesso sono ancora altissime e la partecipazione disegna mappe di straordinaria disuguaglianza? Nel 2019, l’anno precedente alla pandemia, non aveva svolto alcuna attività culturale, per quanto semplice e occasionale, il 20,7% della popolazione, un residente su cinque. Il valore era peraltro stabile da tre anni, senza alcun miglioramento. A partire dai cinquantacinque anni, la quota di persone che non partecipano a nessuna forma di cultura è molto di più di un quinto e aumenta, fino ad arrivare al 44,8% tra le persone che hanno superato i 75 anni. Sono inattive il 22,8% delle donne rispetto al 18,4% degli uomini; tra gli ultrasettantacinquenni le percentuali di inattività culturale raggiungono il 50,7% delle donne, contro il 35,9% degli uomini.
Nelle regioni del Sud la percentuale di coloro che non hanno svolto nessuna attività culturale nell’anno è la più alta ed è pari al 28,9%. La totale assenza di attività culturale arriva al 24,1% tra coloro che vivono nei comuni con meno di duemila abitanti, anche per evidenti motivi di minore offerta culturale.
Questa offerta, in Italia, risente infatti di forti disparità. Il 15% dei comuni italiani e quasi 1,7 milioni di cittadini (il 2,8% della popolazione complessiva) sono privi di spazi, organizzazioni, e altre forme di accesso fisico alla cultura. Per esempio, più della metà dell’intero patrimonio di biblioteche di pubblica lettura è al Nord (58%), il 25,5% sta nel Mezzogiorno e il 16,5% nel Centro Italia. Questi valori vogliono dire che c’è una biblioteca ogni 29 kmq circa e ogni 6.400 abitanti al Nord; ogni 47 kmq e 9.600 abitanti al Centro; e ogni 65 kmq e 10.600 abitanti nel Mezzogiorno.
Fra le dotazioni di servizi culturali e l’intensità della partecipazione alla cultura esiste un rapporto significativo. Di conseguenza, quello che viene puntualmente descritto dai dati della statistica ufficiale è una situazione di imponente disuguaglianza fra i cittadini in relazione alla disponibilità di queste dotazioni. La normativa di settore definisce come servizi culturali i musei, le biblioteche, gli archivi e le aree archeologiche, e il cosiddetto Decreto Colosseo del 2015 indica che la loro “apertura al pubblico regolamentata” è un servizio essenziale. In quanto servizi pubblici i servizi culturali garantiscono la cura di specifici interessi generali. Oltre all’accesso, le funzioni indicate dalla legge sono sei:
- preservazione della memoria;
- promozione dello sviluppo della cultura;
- educazione;
- promozione della lettura:
- studio;
- ricerca.
Nell’idea di servizio essenziale è implicita anche una componente territoriale. Il servizio dovrebbe infatti essere facilmente accessibile e di prossimità, come ci si aspetta per i presìdi sanitari, le scuole dell’obbligo, la viabilità, il trasporto pubblico e così via. I servizi possono essere considerati pertanto come luoghi diffusi, che svolgono funzioni finalizzate alla soddisfazione di bisogni dei cittadini, distribuiti e regolati in modo da garantire l’uniformità delle prestazioni. Possono essere gratuiti o a pagamento. In questo secondo caso, almeno parte dei costi sono sostenuti dallo Stato, attraverso le sue articolazioni e, tramite la diversificazione dei prezzi, l’emissione di contributi, o l’imposizione di ticket variabili, tengono conto delle differenze di reddito fra i cittadini e cercano di abbattere le barriere economiche.
Le esperienze di arte e di cultura che fanno le persone non si limitano, beninteso, a quello che si offre nei musei, nelle biblioteche, nei monumenti, nelle aree archeologiche e negli archivi, per quanto negli ultimi 50 anni, in Italia, la gamma di ciò che si può fare in questi luoghi è andata ampliandosi e questo ha portato a grandissimi benefici. Anche in considerazione di ciò, si rende necessario estendere il perimetro delle esperienze di arte e cultura, ricevute e praticate dalle persone, per fare rientrare in esso la musica, il teatro e la danza, la pittura, la scultura, la videoarte, il design, l’architettura, la radio, il cinema, la televisione, i festival, l’artigianato artistico, la moda, e tutte le loro versioni digitali. Per non dire del patrimonio culturale immateriale o intangibile.
Negli ultimi trent’anni un numero crescente di studi ha collegato le esperienze d’arte e di cultura alla generazione di benefici di grandissima importanza per la vita delle persone. Questi studi (riassunti in due recenti scoping review, la prima delle quali commissionata dall’Oms, la seconda dalla Commissione europea) hanno raccolto un corpus di evidenze che documentano come una vita piena di arte e di cultura, consumate o fruite, e soprattutto praticate, in modo formale e informale, professionale e amatoriale, virtuoso o dilettantesco, assicuri benessere e promuova salute, nel senso più completo e duraturo del termine.
È probabilmente in quella direzione che dovremmo guardare quando cerchiamo il contenuto degli interessi generali che i servizi culturali hanno lo scopo di soddisfare, e la giustificazione della loro natura essenziale. Potremmo postulare che il contenuto primo, la missione chiave dei servizi culturali sia la promozione del benessere e della salute derivante dalle esperienze di cultura e arte rese disponibili al maggior numero possibile di cittadini. Esserne esclusi produce una profonda e ingiusta disuguaglianza. Per questo abbiamo bisogno, molto bisogno, di servizi culturali.
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Nota sull’autrice
Annalisa Cicerchia è un’economista della cultura, con una lunga esperienza di ricerca sull’impatto di politiche e interventi, la pianificazione, e valutazione strategica per il settore culturale, i dati per fondare le decisioni e accompagnare la loro attuazione. È ricercatrice senior all’Istat, componente dell’Expert Group on Culture Statistics di Eurostat, nonché membro del consiglio direttivo dell’Associazione per l’Economia della cultura.
È tra i fondatori e vice presidente del Cultural Welfare Center.
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