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Export motore di innovazione, un’analisi

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STEFANO MANZOCCHI

Nonostante i venti di guerra in Europa, il conflitto economico e tecnologico tra Stati Uniti e Cina, il protezionismo dilagante, le esportazioni italiane sono aumentate sostanzialmente fino al 2022 e si sono mantenute su livelli record nel 2023. Anche quest’anno, secondo le stime del Centro Studi Confindustria, si assiste ad una espansione seppur debole dell’export (+0,6%). Nel frattempo, le importazioni sono in calo nel 2024 e quindi il saldo della bilancia commerciale fornisce un contributo rilevante alla crescita del Pil nell’anno in corso.

L’aumento dell’export è riconducibile ai servizi, in particolare al turismo, mentre le esportazioni italiane di beni sono previste stabili ma non in aumento quest’anno, soprattutto a causa della crisi dell’economia tedesca. L’export, con la solidità del nostro sistema manifatturiero, il risparmio privato degli italiani, e la ricchezza del nostro patrimonio scientifico, culturale e di competenze sul lavoro, si sono confermati negli anni come i pilastri della stabilità del sistema-Italia; questo richiede una riflessione sia sulle strategie aziendali, sia sulle priorità della politica economica, in un contesto internazionale tutt’altro che semplice.

 

Esportare è una chiave del benessere in una società in contrazione demografica. Non è l’unica, perché la domanda interna per consumi e investimenti è cruciale, e va alimentata nel nostro Paese: sia sostenendo i consumi interni con strategie retributive lungimiranti e innovative (ad esempio, riconoscendo i compensi per la produttività nelle imprese con risultati migliori senza penalizzare quelle che invece soffrono sul mercato); sia creando le condizioni amministrative, finanziarie e fiscali per realizzare gli investimenti pubblici e privati che la nostra economia richiede per aumentare i suoi livelli di efficienza.

Il traino dei mercati esteri è tuttavia decisivo quando la demografia ci presenta il conto di una popolazione ridotta e invecchiata: i consumi cambiano e non spariscono, è vero, nelle società anziane, ma nulla può sostituire la domanda impetuosa che proviene da economie in espansione demografica e con una popolazione “giovane”. Non è un caso che i migliori risultati per l’industria italiana nell’ultimo biennio siano riconducibili a paesi emergenti (l’India, ad esempio) o molto dinamici sotto il profilo della crescita e della popolazione (gli Stati Uniti).

Il dinamismo di quelle società, in un certo senso lo importiamo da noi, quando le nostre imprese si presentano su quei mercati per vendere i loro beni e servizi. Una popolazione che invecchia tende inevitabilmente ad essere meno propensa all’innovazione, ma il confronto con i bisogni e le domande che emergono da consumatori e aziende più giovani, seppur lontani geograficamente, spinge sulla strada del cambiamento. Un riscontro si trova nelle analisi del commercio estero relativo ai prodotti per la sostenibilità e la transizione energetica, che è cresciuto da inizio secolo ad un tasso medio superiore a quello complessivo dell’export. Per l’Italia, in particolare per la nostra meccanica, ad esempio, questo ha contribuito ai 60 miliardi di esportazioni, circa un decimo del totale, con una crescita attesa di oltre il 10% nel 2025-26.

 

Negli ultimi due anni le imprese italiane hanno saputo intercettare il vento dei mutamenti geopolitici che peggioravano le prospettive di affari in Russia, Cina, alcune aree del Medio Oriente, e hanno puntato forte sul mercato Usa più che nel passato.

Se guardiamo alla precedente Amministrazione Trump, si potrebbe ipotizzare che lo scenario non cambi di molto: in fondo, nel 2021 al termine del primo mandato del presidente rieletto, il sistema produttivo italiano aveva incrementato l’export verso gli Stati Uniti del 16% rispetto all’anno della pandemia, e di circa 10 miliardi rispetto al 2017.

Tuttavia, siamo oggi in uno scenario molto diverso, e dalla prossima Amministrazione Trump ci possiamo aspettare un revival della dialettica economica bilaterale tra gli Usa e i singoli governi nazionali europei, non sul piano dei dazi che sono (per ora) negoziati su base comunitaria, ma sul piano del procurement, del trattamento fiscale delle imprese, della localizzazione degli investimenti industriali dall’estero.

 

Strategie aziendali e politiche industriali faranno comunque la differenza. La concorrenza sui mercati globali ha effetti sull’innovazione di processo, e non solo di prodotto: due terzi delle aziende che investono nelle tecnologie digitali esporta, mentre vende all’estero meno della metà di quelle che non vi investono. Per consolidare questi successi, e per garantire un futuro di benessere per chi vive a lavora nel nostro Paese, la formazione è fondamentale e talvolta trascurata. Ad esempio, le analisi mostrano che nell’ultimo decennio l’Italia ha peggiorato la sua posizione relativa in ambito Ue per quanto concerne le competenze digitali, con un sensibile svantaggio a carico delle regioni meridionali e della componente femminile della popolazione. Anche nel caso delle competenze per la sostenibilità ambientale, l’offerta domestica non sembra adeguata a soddisfare l’aumento della domanda.

Delle tante urgenze che attori sociali e politica hanno di fronte, quella della formazione rimane prioritaria. Sotto questo profilo l’occasione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, e delle riforme che quel disegno di ripresa economica e sociale richiede, resta unica. Un disegno nel quale gli investimenti in capitale fisico vadano di concerto con quelli immateriali, promuovendo anche un forte sistema di politiche attive del lavoro.

 

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